L’insostenibile pesantezza del “Come stai?”
Come stai?
La domanda che facciamo e ci sentiamo fare da chiunque, in
qualsiasi contesto spazio temporale.
Solo apparentemente un quesito di facile gestione, perché solitamente non
ci si aspetta né si fornisce una risposta troppo particolareggiata.
Lo chiediamo ma non intendiamo trascorrere le successive tre ore in
rassegnato ascolto dei problemi altrui.
Allo stesso modo rispondiamo sfuggenti, perché se ci fermiamo a ragionare
un attimo ci sono sì delle cose che vanno bene ma anche delle cose che
non vanno bene, e certo non possiamo in due secondi fare un calcolo
metafisico delle forze in gioco che arrivi ad una valutazione che possa
anche lontanamente offrire all’interlocutore una idea generale
dell’andamento della nostra vita.
Nel caso si riesca a risolvere l’arduo calcolo si può sfoggiare il totale come
risposta più che soddisfacente, finché i fattori non mutano (lo faranno) e ci
costringono ad una nuova estenuante seduta di algebra.
Ed ecco che i tentativi di risolvere infiniti personalissimo calcoli portano a
risposte meno sfuggenti e più articolate.
Potrebbe andare meglio. Insoddisfatto, lievemente scaramantico,
sfiduciato.
Potrebbe andare peggio. Lucido, severo ma giusto.
Si va. Enigmatico. A seconda del tono di voce individueremo una
componente vittimistica o fiduciosa.
Resistiamo. Patriottico, speranzoso.
Tiriamo avanti. Faticoso, che necessita di un certo impegno muscolare.
Ce la sto facendo. Ottimista, in divenire.
Possiamo replicare al tanto complicato “Come stai?” in modo più o meno
sfuggente o fantasioso, senza mancare di ricordarci periodicamente di
chiederlo a noi stessi e rispondere senza sfuggire; se necessario prendere
quaderno e matita e risolvere quel calcolo, per avvicinarci il più possibile
alla sincerità che ognuno di noi merita dalla propria coscienza.